Elevare la democrazia“Territorio per territorio, c’è bisogno di gruppi – comunque li si chiamino, da qualunque mondo provengano, che siano credenti o non credenti – che si preoccupino di promuovere la convergenza di tutte le forze aperte alla democrazia, e che queste forze imparino a convergere sul metodo di praticare la giustizia .” di Roberto Mancini Di fronte al rischio che la rappresentazione della realtà, per esempio quella offerta dalla televisione, finisca per sostituirsi all’esperienza diretta, impedendo uno sguardo lucido sul reale, è importante tentare di capire dove sta andando l’umanità. Un tentativo delegittimato, almeno in questi decenni, dalla convinzione che le ideologie siano ormai crollate, quando in realtà il neoliberismo è un’ideologia così subdola da presentarsi come la realtà stessa, permeando completamente il nostro lessico e il nostro sguardo. Un’ideologia trionfante, dunque, caratterizzata dalla riduzione della storia al presente immediato della società, attraverso il nostro concetto di modernità come mancanza di apertura al futuro. Per cui il moderno sarebbe solo quello che accade oggi, all’ultimo istante. Ma, se non penso la storia, non penso neppure la comunità umana: ognuno è murato nel suo particolare presente. Pertanto, la storia è stata ridotta al presente immediato, la società a un grande mercato e il grande mercato al mercato finanziario. Forse, di fronte a una realtà tanto sgradevole, la nostra grande tentazione è quella di rifugiarci nella nostalgia. I cattolici, per esempio, anziché rimpiangere il Vaticano II, dovrebbero cercare di coglierne anche i limiti. Per dirla in maniera più semplice, il Vangelo era più avanti del Concilio Vaticano II, che, se è apparso rivoluzionario in relazione alla rigidità dell’istituzione cattolica, è stato tuttavia molto timido, molto prudente, rispetto alla vita, rispetto al Vangelo. Non c’è, insomma, niente da rimpiangere, c’è solo da andare avanti. E non si tratta di un fatto cronologico – si può andare avanti anche da vecchi e rischiare di fermarsi quando si è giovani – ma è un fatto spirituale: attiene, cioè, alla nostra capacità di amare, di rinnovare con l’amore la vita e la storia. Il punto allora non è solo quello di aggiornare l’analisi della realtà, ma di risvegliare quella coscienza corale, come avrebbe detto Aldo Capitini, senza cui non ci può essere una comunità umana. Quando la coscienza si addormenta, quando si fa sviare, la prima cosa che perdiamo è proprio il senso del legame comunitario e del legame creaturale. È importante rinnovare questa visione della realtà. Perché non si può essere fecondi se si resta privi di una visione della realtà, dell’andamento della storia: ci si aggirerà all’interno della vita sociale come sonnambuli, sbattendo di qua e di là, senza riconoscere una direzione di impegno che possa portare frutto. Occorre allora rinnovare la nostra presenza nella realtà in maniera feconda, per poi portare questa energia nelle relazioni interpersonali, nel mondo dell’educazione, della politica, dell’economia, dell’informazione. Anche in quello dell’autoriforma delle istituzioni religiose, che saranno le ultime a convertirsi. Chi guarda con speranza a quelle istituzioni come proprio riferimento principale ha sbagliato direzione: sono le più retrive, le più chiuse al cambiamento, in quanto si illudono ancora di esercitare un qualche monopolio sul sacro. Che è il grado massimo di sordità. LA RIVOLUZIONE DELLA FRATERNITÀ E DELLA SORORITÀ La prima lettura del reale richiama la riflessione condotta dalla fisica contemporanea, già a partire dall’Ottocento, rispetto alla tendenza, che esiste in natura in virtù della seconda legge della termodinamica, all’entropia, alla morte, al degrado dell’energia. Una riflessione ripresa poi dall’economista Nicholas Georgescu Roegen, il fondatore della bio-economia, il papà della teoria della decrescita. In questo quadro, l’essere umano deve essere un amministratore parsimonioso, consapevole del fatto che il mondo attuale lo abbiamo preso in prestito dai nostri figli e dai nostri nipoti, e che dobbiamo dunque preservarlo. Ma questo non vale solo in rapporto alla natura. Esiste anche una legge dell’entropia sociale, in base a cui tutto ciò che è collettivo, che è sociale, che è pubblico, tende molto più facilmente alla decadenza, alla disgregazione, alla disarticolazione dell’umanità che alla fioritura di ciò che è collettivamente umano. Si può riuscire ad avere buoni rapporti, quando va bene, su scala interpersonale, ma oltre quel confine, al livello di un comune di 10mila persone, di una regione di 7-15 milioni di persone, di una nazione, del mondo intero, ecco, qui le forze entropiche presenti nella storia entrano prepotentemente in gioco. Ernesto Balducci o Carlo Molari, con il loro sguardo attento al divenire della storia, ci ricorderebbero che il cammino dell’umanità ha un respiro, una cadenza, un ritmo misurabili sui tempi lunghi e che noi dobbiamo fare la nostra parte nel segmento che abitiamo. È chiaro che non riusciremo a vedere l’umanità liberata, ma dobbiamo ugualmente fare la nostra parte. Esiste tuttavia una forza che possa rispondere a questa La semantica dell’alterità, malgrado le migliori intenzioni, è stata prodotta nei secoli, in realtà, proprio dall’incapacità di vivere il cristianesimo in Europa, di prenderlo sul serio. Nel cristianesimo evangelico, l’altro è un fratello o una sorella, mentre noi storicamente abbiamo trasformato il fratello o la sorella in un altro. E, se è un altro, vuol dire che conta meno di me. La retorica del rispetto e dell’accoglienza è rimasta priva di tradizione operativa, perché l’altro rimane soltanto l’altro. Con il cristianesimo, il termine “persona” non indica più la maschera come nel mondo latino classico, ma l’essere umano vivente dotato di valore infinito. Salvo sottintendere il primato della persona come il “mio” primato. La stessa evocazione della Dottrina sociale della Chiesa è vuota retorica, non avendo portato elementi di cambiamento strutturale, di critica radicale a tale sistema. Quello che è mancato, e che era indissolubile dal primato della persona, è la rivoluzione della fraternità. E della sororità, perché non si può declinare il mondo solo al maschile. La fraternità è stata vissuta in senso nazionalistico, e in fondo violento: l’amore di patria. È lì che si è fratelli, sulle trincee. Oppure si è riconosciuta una fraternità ristretta, monastica, tendenzialmente settaria. Ma l’altro, a partire dal Medioevo, e poi nella prima modernità, è rimasto soltanto l’altro, come attesta il dibattito sulla legittimità del prestito a interesse, quando i cattolici dicevano che agli ebrei si poteva praticare il prestito a interesse e gli ebrei dicevano lo stesso in relazione ai cristiani. E la modernità ha via via instaurato questo regime generale dell’alterità. Ecco perché non viene scalfita tale mentalità quando evochiamo l’altro: rimaniamo sempre all’interno della stessa semantica.Potremmo invece declinare la fraternità e la sororità in modo che, da una parte, siano chiaramente non violente, non nazionalistiche, non particolaristiche, non settarie e, dall’altra, rispondano veramente ad una logica che vincoli alla pratica della giustizia. Un effetto di tale mancata rivoluzione è che noi pensiamo la giustizia o come una faccenda settoriale che riguarda i giudici, i tribunali, i processi, o secondo i criteri della retribuzione, secondo il merito e secondo la colpa. Ma la vera logica della retribuzione è quella della vendetta, non della giustizia: tanto hai fatto, tanto ti do. La meritocrazia tanto evocata come fosse la soluzione di questa Italia di fannulloni e di profittatori è una categoria tipica della cultura della competizione. Provate, in una situazione di competizione, a essere voi stessi: vedrete che non è possibile. Provate a fondarci una convivenza: esploderà. Quando siamo nati, non è che nostra madre ci abbia detto di entrare in una competizione per la conquista del cibo: siano stati allevati all’interno di dinamiche di cura e di cooperazione, non di competizione. L’idea del merito, invece, è tipica della grammatica della competizione: io mi sono conquistato, attraverso la mia fatica, il mio impegno, la mia furbizia, una posizione e tu, se non sei stato altrettanto bravo, devi restare indietro. È una logica che spezza il legame interumano. Quando il Concilio ha affermato che la Chiesa è il popolo di Dio, si è trattato di un passo avanti? Il popolo di Dio è l’umanità intera, anzi, di più, è il creato. Non è l’insieme dei battezzati. Come facciamo noi a fissare un perimetro per il popolo di Dio? Tradurre una visione di questo tipo nella prassi politica è veramente come voler far crescere un fiore sul cemento. Uno dei tratti più clamorosi della nostra situazione politica è la mancanza di visione, l’estrema povertà di pensiero anche dei dirigenti di centrosinistra o di sinistra (degli altri non parliamo neppure). È chiaro che non si può dire: «Restiamo fuori dalle istituzioni, così siamo più liberi», né pensare di gestire un Paese on-line. Non è neppure giusto, perché resterebbe comunque esclusa una porzione della popolazione. LA VIA INVERSA Come è possibile pensare invece di recuperare una visione che sia condivisa all’interno dello spazio politico? Ripartiamo dall’entropia sociale a cui accennavo prima. Qual è l’unica forza rinnovabile a cui possiamo attingere per far fronte a questa tendenza al degrado che è tipica di ciò che è storico, sociale, pubblico? Aldo Capitini diceva che «la storia respira a intervalli»: bisognerebbe inserire qualcosa di nuovo nella storia perché una società intera possa respirare. Ma è talmente raro e abbiamo sofferto già tante delusioni che ormai la grande tentazione diventa il ripiegamento nei nostri piccoli gruppi. L’unica energia a cui possiamo attingere non dobbiamo cercarla lontano né fuori: è l’umanità. Lévi-Strauss, nel suo libro Tristi Tropici, diceva che «occorre trovare la via inversa», cioè invertire la tendenza a questa disarticolazione, a questo degrado della società. L’unica forza è l’umanità. Un’umanità che possa fiorire per azione di un amore liberante. So che la parola “amore” suona un po’ retorica. È una di quelle parole, come “felicità” e “Dio”, così tanto evocate e disattese nella realtà da provocarci una reazione di diffidenza. Ma io un’altra parola non ce l’ho. Un amore “liberante”. Aggiungo questo aggettivo perché la riprova di un amore autentico, l’unico sigillo di autenticità, è quando l’effetto di una relazione d’amore è quello di liberarci: quando non è una schiavitù, non è un sacrificio (come dicono le dottrine religiose), non è un peso, ma è una fioritura della vita. Un amore è vero quando ti libera.L’amore liberante come energia di umanizzazione non è naturalmente un’energia impersonale, ma passa attraverso le persone, cioè attraverso qualcuno che fa questa scelta. È un pregiudizio dell’Occidente razionalista pensare che l’amore sia un’emozione, un sentimento, una malattia da cui dopo un po’ si guarisce. L’amore è prima di tutto una forma di vita. E la vita umana cerca una forma: se resta informe non è umana e se assume una forma troppo stretta, soffocante, ci provoca infelicità. È la forma di vita borghese: si sa già quello che si farà dal lunedì al venerdì, il sabato si farà un’altra cosa, la domenica si vedrà la partita e in estate si farà la fila in autostrada, mentre a Natale si farà la fila nei negozi per comprare regali… Non è una forma di vita, è un carcere. La vita umana cerca una forma che ne faccia trasparire la bellezza, la grande infinita dignità. E questa forma deve essere così ampia, così liberante, da non soffocarci. Solo l’amore offre questa possibilità all’interno della condizione umana. Ma come tradurre questa energia nella prassi politica? Non mi presento parlando d’amore: troverò altre categorie, altri linguaggi, altre forme di prassi. Ma il concetto da tradurre è questo. Finora abbiamo sperimentato fattori di demolizione, di mortificazione della vita democratica. Pensiamo innanzitutto alla crescita del capitalismo mondiale. Ormai abbiamo capito che il capitalismo è antitetico alla vita democratica. Non è questione di moderarlo, come spesso appare nei pronunciamenti ecclesiali. Non è una questione di eccessi: è proprio la logica strutturale di questo sistema che è profondamente atea, nel senso che è contro l’essere umano, perché lo considera uno strumento, essendo il fine la riproduzione del capitale. La Bibbia parlerebbe di idolatria. La nostra variante è che non è neppure più un’idolatria: è un nichilismo radicale. Già Bonhoeffer, nel ’44, diceva: siamo ormai dei nichilisti, non adoriamo proprio più niente, pensiamo alla sopravvivenza e basta. Ecco perché il cambiamento spirituale e culturale è difficile: non basta cambiare direzione del proprio credere, bisogna ricostruire la capacità di credere nelle persone. L’essere umano contemporaneo non crede, non dona qualcosa di sé: si adatta, si iperadatta. Gli psichiatri ci dicono che l’essere umano contemporaneo è ammalato di iperadattamento: accetta tutto quello che il sistema decide, lo prende come se fosse un fatto di natura. Pensiamo al nostro uso della parola “crisi”. Noi la sperimentiamo dal 2008, ma altri popoli la vivono da decenni o da secoli. Come mai, quando loro soffrivano la fame e la distruzione, noi pensavamo al boom economico, al progresso, alla crescita? È solo perché non sapevamo vedere il cammino dell’umanità. Oggi che noi sperimentiamo il 5% di quello che hanno patito altri popoli parliamo di crisi. Come poi se la crisi passasse come passa un temporale.La parola “crisi” è una parola ideologica, la parola giusta è “fallimento”: è il fallimento di un modello che ha scommesso sul potere e non sull’amore liberante. E che del potere ha esaltato il modello più puro, più autoreferenziale, più automatico: il potere del denaro. Perché il denaro conta più del potere politico, più del potere religioso, più del potere militare. Il potere economico stende una cappa planetaria, riuscendo davvero a passare dentro le coscienze, dentro le istituzioni, dentro i partiti (figurarsi, per passare qui ci vuole un attimo).La crescita del capitalismo mondiale è stata accompagnata dall’involuzione dell’Unione Europea. L’idea della scuola-azienda, per esempio, non l’hanno partorita Moratti o Gelmini, viene dal Libro Bianco sull’educazione in Europa del ‘94-‘95. Che dice: primo, bisogna essere competitivi, quindi dobbiamo formare giovani pronti a lottare nel mercato, dei gladiatori economici; secondo, dobbiamo formare possibilmente anche dei cittadini. Senza capire che i due aspetti sono incompatibili e senza vedere che in realtà si tratta di una truffa, perché tanto il mercato i giovani non li vuole, non è programmato per l’occupazione. Così, roviniamo le istituzioni educative per un obiettivo che non è realistico. E pensiamo all’Italia. Io dato sempre l’involuzione democratica in Italia dal 1978, a partire dall’omicidio di Aldo Moro. Poi è venuta l’epoca del craxismo, che è stata la vera premessa del berlusconismo, poi i vent’anni del berlusconismo, con conseguente contaminazione dei partiti che avrebbero dovuto essere alternativi. Non a caso oggi governano insieme; non a caso il presidente Napolitano dichiara che l’unità nazionale, la capacità di collaborare, è fondamentale per il futuro del Paese. È chiaro che per noi la possibilità di una democrazia effettiva, diffusa, partecipata, si è ridotta nel tempo sempre di più, al punto che oggi troviamo normali cose che vent’anni fa ci sarebbero apparse scandalose. Se una persona che commette reati e lo fa sistematicamente non è un leader di partito, va in galera. Se è un leader politico, stiamo a discutere sul fatto che non bisogna affrontare le questioni politiche per via giudiziaria. Si tratta di una degenerazione culturale profondissima.E aggiungiamo il conformismo di quasi tutti gli intellettuali, lo svuotamento delle nostre istituzioni educative e, soprattutto, l’autoreferenzialità che ha sempre più colpito i partiti, anche quelli meglio intenzionati, lontanissimi dalla realtà e da una visione di società. IL VIAGGIO DELLA DEMOCRAZIA Come si può riprendere allora il cammino della democrazia? Non può trattarsi di gesti occasionali, di elementi simbolici, di uno sforzo di volontà. Se guardiamo alle primavere della storia, tutte rispondono al criterio che si condensa nella parola che usava Gandhi, svaraj, che letteralmente significa indipendenza, autogoverno. E che per Gandhi significava fare i conti con le tendenze distruttive che ci si porta dentro e che si rischia di veicolare senza neppure accorgersene, soprattutto quando si pensa di essere dalla parte del bene. Qual è il grande pericolo di quelli che pure hanno una coscienza critica, quello che si osserva nella sinistra, quello che si osserva nel mondo religioso? Il settarismo. Quando si pensa che la propria parte incarna il bene e si guarda dall’alto in basso tutti gli altri. Svaraj vuol dire invece fare i conti per prima cosa con le proprie tendenze di automistificazione, di distruzione; ricordare che il male non è l’altro, che il male è una presenza trasversale, una corruzione della nostra umanità, delle nostre relazioni che riguarda innanzitutto se stessi: la saggezza di cambiare se stessi se si vuole veramente cambiare qualcosa del mondo. Quali sono le condizioni perché ciò si realizzi? Prima condizione: sentire la sofferenza che un sistema ingiusto produce sulle persone e sul mondo naturale. Il primo fattore di cambiamento è sentire una sofferenza che è intollerabile, ingiusta ed evitabile. Seconda condizione: sentirla non solo come mia, ma anche di altri, a partire da quanti si trovano in condizioni peggiori della propria. Una sofferenza condivisa, collettiva. Ecco perché parlavo del sentimento di fraternità o di sororità come un’energia. Quando davvero sento l’altro come fratello o sorella, questa sofferenza diventa intollerabile. Il massimo a cui è giunto il nostro sentimento di fraternità è stato invece il volontariato, che si è arenato nelle secche dell’assistenzialismo. Terza condizione: vedere, pensare, trovare i passaggi di un’alternativa. Niente ci obbliga a tenerci questo sistema sociale. Abbiamo bisogno davvero dell’istituzione delle Borse su scala mondiale? Ci aiutano a vivere, ci garantiscono diritti, ci fanno sentire più liberi? La lotta per l’indipendenza è possibile se si sa identificare un potere oppressivo mettendo in atto le strategie giuridiche, educative, politiche, democratiche per abbattere le condizioni che lo rendono possibile. Allora, le Borse devono essere abolite; le banche devono assumere forme cooperative, forme pubbliche, in cui il credito serva all’economia reale e alle persone; l’intera economia reale deve essere riorientata. Perché oggi l’economia è diventata la totalità, mentre la società appare come una variabile dipendente. Occorre dunque ripensare l’economia reale, per esempio attuando politiche economiche che premino le imprese a responsabilità sociale ed ecologica e penalizzino l’azione economica selvaggia che non rispetta né gli altri né la natura. Il mercato è uno strumento, è possibile orientarlo in altro modo, in vista di una redistribuzione della ricchezza. Il punto non è: mercato sì-mercato no. Il punto è che il nostro mercato è pensato sul modello della guerra, della guerra economica. Solo per ignoranza si può credere che il capitalismo sia l’unico modello economico esistente. Esistono almeno altri 7-8 modelli di economia alternativa, come per esempio l’economia gandhiana della trusteeship, cioè dell’amministrazione fiduciaria, l’economia di comunità. Il nostro Adriano Olivetti, nel suo libro L’ordine politico delle comunità, del ’45, già prevedeva quanto sarebbe stato facile svuotare una democrazia fatta solo di suffragio universale e formale: la democrazia va integrata, diceva; occorre un radicamento comunitario, occorre che le forze della conoscenza e le forze del lavoro concorrano alla democrazia. Serve allora una sollevazione, che non vuol dire lotta armata, ma azione che solleva le persone. E che è possibile solo sentendo nel proprio cuore, nella propria carne, nella propria quotidianità questa sofferenza inaccettabile. I nostri giovani vivono tale sofferenza, ma manca loro il riferimento di una parte almeno del mondo adulto. Finché resteranno isolati e abbandonati in questo deserto, non attiveranno una creatività politica. Da qui la necessità di ristabilire un’alleanza tra generazioni, tra i giovani e la parte più critica del mondo adulto. Certo che la democrazia è fatta di partecipazione, ma quanto è demagogico risolverla nella partecipazione! Che ci vuole a manipolare le masse? Insieme alla partecipazione, ci vuole l’educazione. La democrazia non esiste se non c’è un popolo critico, consapevole. Finché vince le elezioni il primo che promette di abbassare le tasse, vuol dire che non c’è popolo. Non è nemmeno questione di meccanismi politici, di legge elettorale, della presenza di Berlusconi: il fatto è che non c’è il popolo critico. La democrazia è un viaggio, devo sapere dove andare. Non posso perdere il senso della direzione, quella visione, che in fondo abbiamo ricevuto in custodia e in eredità, che è la nostra Carta costituzionale. La nostra Costituzione è una visione. Il problema è che resta un testo e non un metodo, non un processo quotidiano, non un’agenda politica. I partiti o se la inventano, un’agenda politica – pensiamo alla Lega Nord -, oppure se la fanno dettare dai mercati. Pensiamo invece a un Paese che faccia della Costituzione la propria agenda politica, che l’assuma come processo di trasformazione. Se ciò non avviene, le forze antidemocratiche non devono nemmeno sforzarsi di cambiarla: è sufficiente eluderla, aggirarla. Facciamo l’esempio dell’articolo 11: l’Italia ripudia la guerra. Ancora sosteniamo di stare in Afghanistan per una missione di pace. La pace non c’entra nulla: si ammazza e si viene ammazzati. E le principali autorità istituzionali ci ricordano la necessità di rifinanziare quella missione. Oggi sentivo alla radio un esponente del Pd che diceva che gli F35 sono necessari per la sicurezza dello Stato. Finché il Pd assume queste posizioni – sugli armamenti, sulla patrimoniale, sulla questione del mercato – è chiaro che restiamo privi della visione di un’alternativa. DIREZIONI DI CAMBIAMENTO Vorrei allora indicare le quattro direzioni verso cui possiamo convogliare le nostre energie, poche o tante che siano. Prima direzione: il cambiamento della politica. Per me i partiti sono necessari, ma vanno trasformati, rigenerati: ben venga allora l’impegno di chi prova a introdurre altre logiche nella vita dei partiti (o dei sindacati, perché non è che la loro situazione sia migliore). Non è questione di cambiare leader, per quanto la crescita di una leadership democratica sia importante. La cosa ancora più importante è assumere un metodo: quello della giustizia secondo la dignità e il bene comune. Allora, in qualsiasi contesto, bisogna porre questioni di giustizia partendo dalle vittime di questo assetto di convivenza. Seconda direzione: un impegno per un’altra economia, valorizzando le esperienze alternative e impedendo che restino isolate. Non possiamo accontentarci del commercio equo e solidale, della Banca Etica e di poco altro. Perché, per esempio, il mondo operaio, quello sindacale e quello delle esperienze di altra economia non si parlano neppure? Perché ancora oggi i giovani delle facoltà di economia vengono indottrinati al dogma del liberismo? Dove li troviamo gli economisti critici, se gli studenti vengono subito drogati da quell’ideologia? Terza direzione: un impegno per un’altra educazione. Se non si formano le persone, non si hanno neppure cittadini. Perché allora non pensare a un grande movimento per la scuola pubblica, per una scuola che sia educativa, con una didattica capace di ricerca, carica di apertura interculturale? Vorrebbe proprio dire voler bene al mondo e alle nuove generazioni. Non fare della scuola un luogo di noia o di selezione sociale anticipata, come ai tempi di don Milani, quando chi nasceva in una famiglia povera al massimo poteva andare alle scuole professionali. Ecco, noi stiamo tornando a questa situazione. Quarta direzione: un impegno per un’altra informazione. Non immagino che ciò possa partire dalle grandi concentrazioni editoriali, dal Corriere della Sera, con la sua velenosa ideologia dell’ordine, della convivenza nazionale pacifica, del mercato. Ma il cambiamento può partire dall’informazione locale, territorio per territorio, dove i cittadini possono verificare se un giornale altera la realtà o è fedele al suo dovere di informazione. Perché lo strumento informativo, oltre all’uso di internet, resta per noi uno specchio fondamentale della convivenza che sperimentiamo. Qual è la conclusione? Che, territorio per territorio, c’è bisogno di gruppi – comunque li si chiamino, da qualunque mondo provengano, che siano credenti o non credenti – che si preoccupino di promuovere la convergenza di tutte le forze aperte alla democrazia, e che queste forze imparino a convergere sul metodo di praticare la giustizia restituendo diritti e riattribuendo doveri, che insomma insegnino che la politica non è una questione di identità, ma di frutti di liberazione e di democrazia. Il punto non è allora quello di creare un nuovo soggetto politico. Ce li abbiamo già i soggetti politici. È ora di cambiare metodo, di imparare a cooperare tra quelli che credono nella democrazia, di imparare insieme ad assumere un altro sguardo, ad avere il coraggio di una visione alternativa. Tutto ciò non rappresenta una ricetta del cambiamento, non è qualcosa di risolutivo, non è ancora la nascita di una società giusta. Ma, a partire da qui, possiamo almeno pensare di cominciare a difendere le vittime di un’economia omicida e di una politica sterile o complice di questo modello omicida. |